Il termine stress è diventato, da anni, d’uso comune e quindi ci porta alla necessità di formulare una definizione scientifica di stress, per evitare che, poiché può essere usato per spiegare ogni cosa, finisca per non spiegare più nulla (Cassidy, 2002).
Il primo a usare il termine stress per indicare una reazione d’allarme prodotta nell’organismo da uno stimolo esterno fu il fisiologo Walter Cannon, all’inizio del 1900, prendendo il termine dall’ingegneria, dove sta a indicare lo sforzo e la tensione a cui sono sottoposti i metalli.
Cannon introdusse anche il termine “omeostasi” per evidenziare che, nel rapporto con l’ambiente in cui è immerso, l’organismo vivente è impegnato incessantemente in un processo di continuo adattamento, cercando di mantenere costanti le condizioni del suo ambiente interno, entro valori accettabili per la vita. L’omeostasi, quindi, è al tempo stesso un mezzo e un fine per la sopravvivenza degli individui. In questo processo di continuo adattamento, l’organismo interviene sull’ambiente e reagisce a esso per mantenere l’equilibrio. Cannon identificò, tra queste reazioni dell’organismo impegnato nel processo di adattamento, una specifica forma che chiamò “reazione d’allarme”, ovvero una risposta automatica che viene attivata in determinate condizioni. Egli aveva messo in evidenza, ad esempio, come un incremento della secrezione di adrenalina e noradrenalina da parte della porzione midollare delle ghiandole surrenali avesse una funzione indispensabile, anche negli animali, nel predisporre l’organismo a comportamenti di attacco e di fuga (fight-flight response). Tale reazione si accompagna, infatti, all’aumento della pressione sanguigna, all’incremento della frequenza cardiaca, alla vasocostrizione periferica, alla dilatazione pupillare, alla riduzione della salivazione, all’incremento della funzionalità respiratoria e all’aumento della sudorazione.
Negli anni ’30 Hans Selye iniziò una serie di ricerche sugli ormoni sessuali, iniettando estratti di ovaie e di placenta su ratti da laboratorio. Tuttavia i risultati di queste ricerche – i ratti sviluppavano dopo le iniezioni delle modificazioni della corteccia surrenale, atrofia del timo e della milza, alterazioni dei linfonodi e comparsa di ulcere sanguinanti nello stomaco e nel duodeno – lo portarono a dei risultati inattesi: qualsiasi sostanza iniettata, procurava gli stessi sintomi nei ratti.
Da quella che inizialmente Selye visse come delusione, nacque, invece, l’intuizione dell’esistenza di una reazione non specifica dell’organismo a fattori esterni nocivi.
Reazione allo stress, dunque, come adattamento dell’organismo per far fronte a nuove e più impegnative sollecitazioni ambientali.
Selye, con le sue ricerche, dimostrò che le richieste esterne producono risposte fisiologiche che possono causare danni fisici e perfino la morte e che definì “sindrome generale di adattamento” (GAS), nella quale possiamo riconoscere tre fasi: allarme, resistenza, esaurimento.
A sua volta, la fase di allarme è suddivisa in:
• fase preliminare
• fase acuta di allarme
• fase di ripresa.
Nella fase preliminare o di shock avviene un calo delle funzioni vitali. In questa condizione, l’organismo subisce passivamente, sia per limitare gli effetti nocivi dello stressor (assorbendolo senza opporre resistenza), sia per organizzare le difese e far fronte allo stato di allarme.
Segue poi la fase di contro-shock, o “fase acuta di allarme”, in cui prevale il sistema simpatico con elevazione rapida ed energetica delle funzioni omeostatiche basali e in cui l’organismo organizza in maniera aspecifica tutte le sue difese; il sistema simpatico, oltre ad agire sul metabolismo e sulla circolazione sanguigna, attiva la costellazione endocrina simpatica, con la secrezione e l’immissione in circolo di adrenalina e noradrenalina, e mette in funzione l’asse ipotalamo-ipofisi-corticosurrene, con l’aumento generale dei processi metabolici, lipolisi e glicolisi, in modo tale da fornire all’organismo energia a sufficienza per affrontare la situazione.
In questa fase la mobilizzazione delle difese è generale: il cuore batte più in fretta, aumenta l’afflusso sanguigno ai muscoli che possono scattare con più rapidità, il sangue diviene più coagulabile in vista di eventuali emorragie da ferite. Contemporaneamente, le funzioni corporee non strettamente necessarie alla difesa (digestione, sessualità, sintesi proteica, ecc.) vengono messe in una sorta di ‘limbo’ funzionale (Di Nuovo, Rispoli, Genta, 2000).
Questi meccanismi adattativi vengono determinati sia dall’attivazione del sistema nervoso vegetativo simpatico (con la liberazione di adrenalina e noradrenalina), sia dall’attivazione dell’asse Ipotalamo-Ipofisi-Cortico Surrene che determina il rilascio di glucocorticoidi.
L’organismo si prepara perciò alla risposta di “attacco o fuga” e, se ha successo, viene ripristinata l’omeostasi; infatti quando le difese, allertate in questa fase, sono sufficienti a neutralizzare o allontanare la causa nociva, segue allora la “fase di ripresa” con intervento del parasimpatico quale sistema di rigenerazione energetica e di restaurazione della normalità man mano che l’eccitazione del simpatico decresce.
Invece, se esaurite le tre fasi della reazione d’allarme, l’evento nocivo non è stato neutralizzato dai sistemi difensivi di pronto intervento, si attiva la fase di resistenza o adattamento, nella quale l’organismo organizza più stabilmente le sue difese: il SNA lascia il campo all’asse ipofisario-surrenalico con modalità difensive a lungo termine (aumento delle funzioni omeostatiche basali).
Se la minaccia perdura ancora, l’organismo entra nel terzo stadio della GAS, la “fase di esaurimento” della risposta in cui ricompaiono, aggravati, i segni della reazione d’allarme e si verifica il crollo delle difese immunitarie, l’incapacità di adattarsi ulteriormente agli stressor e gli organi smettono di funzionare.
La fase di esaurimento, che nasce con il persistere dell’evento stressante, rende l’individuo incapace di reagire e può portarlo a un grado di indebolimento tale da favorire anche la comparsa di malattie infettive e/o organiche talmente gravi da poter avere, addirittura, un esito infausto.
Seppur tutt’altro che recente, questa teoria, ideata nel 1936, è valida ancora oggi.
Successivamente gli studi sullo stress si concentrarono sull’analisi dettagliata dei processi fisiologici, sulla misurazione delle conseguenze che alcuni stimoli esterni pericolosi, nocivi o vissuti come tali, hanno sugli organismi viventi.
Fu merito di Richard Lazarus, negli anni ‘80, aver integrato il modello di Selye con aspetti cognitivi ed emotivi. Tali studi dimostrarono che non c’è una risposta fisiologica comune a tutti gli agenti stressanti ma che vi sono differenze individuali allo stress e che tali risposte individuali sono mediate dalla valutazione cognitiva dell’evento stesso.
Questo modello, che prende il nome di transazionale, è oggi quello maggiormente adottato e concepisce lo stress come una transazione tra la persona e il suo ambiente.
L’interazione, o il disaccordo, tra le opportunità e le richieste dell’ambiente, e i bisogni e le capacità, nonché le aspettative, dell’individuo, suscitano reazioni. Quando non c’è accordo, quando i bisogni non sono soddisfatti, o quando le capacità sono usate troppo o troppo poco, l’organismo reagisce con vari meccanismi patogeni. Essi hanno natura cognitiva, emozionale, comportamentale e/o fisiologica, e in alcune condizioni di intensità, frequenza o durata, e in presenza o assenza di certe variabili interagenti, possono condurre agli stati precursori della malattia.
La valutazione cognitiva degli eventi, esterni e interni, quindi, ha un peso nel generare stress. Negli anni ’60 Schachter (1962) ha formulato una teoria che, per più di due decenni, è rimasta il modello interpretativo dominante delle emozioni. Secondo Schachter si prova un’emozione quando si sceglie un’etichetta cognitiva per designare uno stato diffuso di attivazione fisiologica cui diamo il nome di una particolare sensazione.
Secondo Lazarus (1984), la valutazione cognitiva, tuttavia, non è equiparabile al pensiero intenzionale, razionale e consapevole. E tale processo cognitivo non è la condizione necessaria e sufficiente dell’emozione. Lazarus sostiene, infatti, che prima di provare una normale emozione noi valutiamo gli eventi in modo rapido e inconsapevole, basando i nostri pensieri su informazioni minime e facendo talora ricorso anche a premesse irrazionali.
Le valutazioni cognitive che si formano molto rapidamente e provocano una risposta emotiva istantanea (ad esempio “quell’orso sta per assalirmi”) prendono il nome di processi cognitivi caldi e sono i precursori dell’emozione. Altri processi cognitivi, più lenti (ad esempio “quell’orso ha una pelliccia nera molto folta”) non destano alcuna emozione e vengono quindi definiti processi cognitivi freddi. Secondo Lazarus, i processi cognitivi caldi precedono sempre le emozioni.
Per Lazarus, gli eventi sono stressanti nella misura in cui sono percepiti come stressanti. Lo stress è caratterizzato dal fatto che l’individuo percepisce le sfide che l’ambiente gli pone come troppo gravose ed eccedenti le sue risorse, come fattori in grado di mettere a rischio il suo benessere.
Come evidenzia Lazzari (2009), le sfide possono anche essere interne all’individuo, rappresentare le sue aspettative, desideri, cosa gli altri vogliono da lui e cosa vuole ottenere dagli altri. Anche in questo caso, se le aspettative interne sono percepite come eccessive rispetto alle capacità, si può generare stress. E più le aspettative interne non sono consapevoli , maggiore sarà il senso di disagio e lo stress non riconosciuto mentalmente farà sentire i suoi effetti sul corpo.
Definiamo a questo punto stress, una reazione fisiologica, psicologica e comportamentale, un effetto attivante o arousal che produce tutta una serie di modificazioni finalizzate a mettere l’individuo nella condizione di affrontare una potenziale minaccia (Lazzari, 2009).
Dicendo potenziale, intendiamo che la minaccia può essere: reale/esterna (sono per strada, sola di sera e mi trovo davanti un uomo armato di coltello), oppure presunta/esterna (sono per strada, sola di sera e mi trovo davanti una persona che temo sia un aggressore), oppure interna (sono sola in casa e penso che i ladri potrebbero entrare). E che, quindi, la presunzione è soggettiva e mediata da una valutazione cognitiva e cioè che lo stress dipende non solo dalle condizioni che viviamo ma anche da come le viviamo.
A livello fisiologico definiamo stress le modificazioni attivate attraverso tre vie: una è rappresentata dall’asse ipotalamo-ipofisi-corticosurrene, l’altra dal sistema ormonale delle midollari del surrene e la terza dal sistema nervoso simpatico noradrenergico.
Il segnale di attivazione del sistema dello stress giunge all’ipotalamo che è la stazione di partenza comune delle tre vie.
Nella prima via, questo segnale stimola la produzione, da parte dei nuclei paraventricolari dell’ipotalamo, dell’ormone di rilascio della corticotropina (CRH). Questa sostanza induce l’ipofisi a produrre l’ormone adrenocorticotropo (ACTH) che, tramite la circolazione sanguigna, va a stimolare, nella corteccia delle ghiandole surrenali, la produzione di glucocorticoidi, tra cui il più importante è il cortisolo. Ricordiamo che l’ipofisi è la principale struttura di regolazione degli ormoni ed è anche un nodo strategico tra il sistema nervoso e quello endocrino.
Il cortisolo prodotto ha la funzione di produrre una mobilitazione generale delle risorse dell’organismo: incremento della produzione di glucosio nel fegato, aumento della disponibilità di glucosio nel cervello, stimolazione dell’utilizzo delle proteine per la produzione
di energia, stimolazione del sistema immunitario.
I neuroni dell’ipotalamo contenenti CRH sono regolati da due strutture: l’amigdala e l’ippocampo. L’informazione sensoriale giunge all’amigdala basolaterale, dove è analizzata e inviata ai neuroni del nucleo centrale. Quando il nucleo centrale dell’amigdale diviene attivo, dà origine alla risposta da stress, attivando il rilascio di CRH.
L’attivazione dell’ippocampo, invece, sopprime il rilascio di CHR in quanto contiene numerosi recettori glucocorticoidei (GR) che rispondono al cortisolo rilasciato dalle ghiandole surrenali in risposta all’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Quindi l’ippocampo partecipa alla regolazione a feed-back di tale asse, inibendo il rilascio di CRH e successivamente di ACTH quando il livello di cortisolo in circolo diventa troppo alto.
Tuttavia – come approfondiremo nel paragrafo 1.3 – l’esposizione continua a cortisolo, come nello stress cronico, può causare una diminuzione del volume dell’ippocampo. Molte sono le ricerche relative a reduci di guerra, donne vittime di abusi sessuali prolungati nel tempo, persone sottoposte ad abuso fisico e psicologico protratto (Bremner, 1999; Kitayama, Vaccarino, Kutner, Weiss, & Bremner, 2005; Putnam & Trickett, 1997), donne che hanno avuto cancro al seno (Nakano et al., 2002). Queste ricerche hanno evidenziato una correlazione tra stress cronico associato a elevata presenza di sintomi di PTSD e atrofia ippocampale.
In seguito a questa degenerazione dell’ippocampo, si stabilisce un circolo vizioso nel quale la risposta da stress diviene più pronunciata, portando ad un rilascio ancora maggiore di cortisolo e ad un danno ippocampale ancora più grande.
La via nervosa è sempre attivata dall’ipotalamo, che invia segnali ad alcune strutture nervose, in particolare al locus coeruleus. Da questi centri si attiva la produzione di noradrenalina (un ormone che svolge anche funzione di neurotrasmettitore) che va a stimolare l’attività del sistema nervoso simpatico (seconda via).
Inoltre partono segnali che arrivano alla porzione midollare delle ghiandole surrenali dove viene stimolata la produzione di adrenalina (terza via).
Noradrenalina e adrenalina sono catecolamine, sostanze che incidono sulla funzione di vari organi: aumentano l’attività cardiaca, la pressione e il flusso sanguigno, l’afflusso del sangue ai muscoli e ai reni, riducono il diametro dei vasi sanguigni periferici e lo aumentano nel fegato e nei muscoli.
A seconda della fonte dello stress, vengono attivate l’una o l’altra via. Per esempio, il freddo ha una forte attivazione del sistema simpatico e nessuna attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, mentre una performance in pubblico produce una forte attivazione della midollare del surrene e una scarsa attivazione del simpatico.
Queste due vie non sono tuttavia completamente distinte fra loro: la produzione di ormone corticotropo (CRH) da parte dell’ipotalamo, infatti, oltre a stimolare l’adenoipofisi a produrre l’ormone adrenocorticotropo (ACTH), che a sua volta andrà a determinare il rilascio di glucocorticoidi da parte della corticale del surrene, determina anche un aumento della concentrazione ematica di catecolamine, che agiranno poi da neurotrasmettitori a livello dell’amigdala e dell’ipotalamo coinvolti nei processi di elaborazione della potenziale pericolosità dello stimolo stressogeno.
Ma, mentre è di importanza vitale la secrezione di glucocorticoidi durante uno stress fisico di breve durata, lo stress psichico e cronico producono, come abbiamo visto, un eccesso di questi ormoni e possono avere profondi effetti dannosi attraverso tutto il corpo.
L’adattamento dell’organismo allo stress, infatti, è la base della vita; le malattie, invece, sono il frutto di un cattivo adattamento.
Nel caso di stress cronico, infatti, l’eccesso di cortisolo provoca una disregolazione delle citochine infiammatorie e dei circuiti Th1, Th2, Th3 e questo si traduce in una soppressione sia dell’immunità cellulare che umorale.